Mons. Paglia: nuove tecnoligie hanno aspetti ambivalenti

Un libro che costituisce una “preziosa risorsa per favorire un accompagnamento che consenta a tutti coloro che sono coinvolti in questi percorsi – genitori, piccoli pazienti (nascituri o neonati), operatori sanitari, responsabili della sanità – di essere tutelati nei loro diritti e di assumere quelle responsabilità che a ciascuno competono”. Così il presidente della Pontificia accademia per la vita mons. Vincenzo Paglia, definisce il libro: “La sfida della vita. Screening e diagnosi prenatale” (Piccin editore, 87 pagine, euro 13) curato dalla Pontificia Accademia per la Vita, che verrà presentato on line il 13 dicembre prossimo alle ore 15.

Lo stesso mons. Paglia nella Prefazione al volume, aggiunge, tra l’altro, che “troppo spesso si dimentica che le nuove tecnologie, aprendo nuove possibilità di scelta, in realtà non solo ne chiudono altre, ma anche dispongono un quadro di interpretazione complessivo dei fenomeni e fanno cultura”. Ma “la complessità e la quantità dell’informazione – aggiunge il presule – non semplificano il processo decisionale, ma lo espongono a nuove tensioni emotive e a forti condizionamenti socio-culturali”. Una realtà complessa, quindi, si fa notare, alla quale non di rado si aggiungono “le interferenze procurate da interessi di tipo commerciale che spingono per una diffusione delle tecniche, senza tener adeguatamente conto del loro impatto e della delicatezza nella gestione dei dati che ne derivano. Ecco allora – conclude mons. Paglia – la necessità di fornire un quadro scientifico qualificato e interdisciplinare, aggiornato ed equilibrato su questa materia complessa”.

Fonte: askanews.it

Mancheranno attrezzature salvavita come le valvole cardiache

Dispositivi salvavita, strumenti per dialisi, valvole cardiache, protesi e ferri chirurgici: sono solo alcuni dei dispositivi medici che potrebbero mancare negli ospedali a partire da gennaio. E’ l’allarme lanciato dalla Federazione Italiana Fornitori in Sanità – Confcommercio relativo payback applicato ai dispositivi medici “che comporta il fallimento dei distributori e lo stop alle forniture agli ospedali”. Con una conferenza stampa organizzata oggi la Federazione ha espresso grande preoccupazione per l’approvazione della normativa che, è stato spiegato, “mette a rischio il tessuto dei fornitori ospedalieri, composto nel 95% da micro, piccole e medie imprese, con oltre 100mila lavoratori coinvolti”.

“Come Federazione che rappresenta le pmi in Sanità – ha dichiarato il presidente di FIFO, Massimo Riem – siamo assolutamente d’accordo a perseguire una spesa pubblica razionale e oculata. Ma questo obiettivo non può passare per una deresponsabilizzazione degli amministratori e un tracollo del tessuto delle pmi italiane. Con l’attuazione del payback centinaia di aziende saranno costrette a chiudere, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Le imprese non saranno più in grado di fornire dispositivi medici, a gennaio ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario.

Chiediamo urgentemente un confronto con le Istituzioni per lo sviluppo di un tavolo tecnico con l’obiettivo di rivedere integralmente la norma sul payback che in questo momento pesa per 2.1 miliardi di euro, per gli anni 2015-16-17-18, sui fornitori di dispositivi medici”.

Fonte: askanews.it

E la campagna vaccinale procede a rilento

Siamo ancora a novembre ma i dati sull’influenza già destano apprensione. La campagna vaccinale procede a rilento e può diventare un amplificatore di questa tendenza. Questo il dato che giunge dal 39° Congresso della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie, che si tiene dal 24 al 26 novembre a Firenze, presso la Fortezza da Basso, con sessioni online che proseguiranno fino al 31 dicembre. “Quest’anno l’epidemia influenzale ha già raggiunto livelli elevati – sottolinea Alessandro Rossi, Responsabile Area Malattie Infettive SIMG – i casi che abbiamo riscontrato noi medici di famiglia sono numerosi, soprattutto nella popolazione giovanile e nei bambini. I primi segnali ci portano a supporre con ragionevolezza che sarà un’epidemia impegnativa: i numeri attuali infatti mostrano che siamo già sul livello della fase avanzata dell’epidemia influenzale dello scorso anno. Dobbiamo pertanto impegnarci a proteggere la popolazione fragile estendendo la campagna vaccinale, rivolgendoci soprattutto a over 65, a chi è affetto da co-morbosità e ai soggetti immunocompromessi, che possono avere conseguenze su ospedalizzazioni e decessi. Dobbiamo attrezzare gli ambulatori, somministrare i vaccini in maniera appropriata e superare le esitazioni. Il nostro ruolo di figure che raccolgono la fiducia dei pazienti ci carica della responsabilità di far capire alle persone che si tratta di un presidio di sanità pubblica e di salute individuale contemporaneamente. Dobbiamo impegnarci da adesso alle prossime settimane, cogliendo anche l’occasione per proporre le cosomministrazioni: il vaccino antinfluenzale, infatti, può fare da driver per la dose booster contro il COVID-19 e per altre coperture contro infezioni virali o batteriche dalle gravi conseguenze come pneumococco o Herpes Zoster, che rappresentano una minaccia per popolazione fragile”.

“I dati relativi all’influenza in queste prime settimane di novembre indicano un tasso di incidenza salito già al 6,6 per mille abitanti, con picchi del 19,6 per mille nella popolazione pediatrica da 0 a 5 anni, che è quella più colpita e che fa da principale fonte di diffusione dell’infezione nella popolazione – evidenzia Paolo Bonanni, Componente del gruppo ‘Vaccini e Politiche Vaccinali’ della SItI che ha partecipato a una recente sessione del Congresso SIMG – . Oggi siamo a un livello di incidenza che solitamente si riscontra intorno alla prima settimana di gennaio: siamo in anticipo di quasi 2 mesi. Questo non significa che si debba avere un andamento simile a quello che si avrebbe a gennaio, ma è comunque un motivo di allarme, e rappresenta un invito a procedere con le vaccinazioni quanto prima. In questa prima fase abbiamo riscontrato una lentezza nelle adesioni. Eppure le previsioni per l’influenza non lasciano ben sperare: non solo la curva epidemica ha già iniziato a salire in maniera importante, ma a causa della limitata circolazione negli ultimi due anni la diffusione potrebbe essere superiore rispetto agli anni pre-pandemici, mentre l’abbandono delle misure di distanziamento potrebbe favorire la diffusione di tutte le infezioni alle vie respiratorie, come influenza, COVID-19, virus respiratorio sinciziale”.

Fonte: askanews.it

Ecco il progetto per aiutare le vittime

Il 25 novembre si celebra la Giornata Mondiale contro la Violenza sulla Donne. Per offrire alle vittime un aiuto concreto, Biodermogenesi®, la metodologia coperta da brevetto internazionale per la rigenerazione tissutale, con i suoi centri d’eccellenza sull’intero territorio nazionale, rinnova il progetto RigeneraDerma, presentato lo scorso aprile alla Camera dei Deputati, e offre a 500 persone che non possono permetterselo, la cura per le cicatrici.

Testimonial del progetto RigeneraDerma è Filomena Lamberti, la donna salernitana cui, nel 2012, l’ex marito nella notte versò dell’acido su testa, volto, mani e décolleté. A 10 anni di distanza da quel tragico episodio, finalmente la donna sta via via riacquistando la sensibilità dei tessuti. Tanto da riuscire a “sentire nuovamente il vento sul volto”, come lei stessa ha dichiarato. Merito del percorso di terapia con metodologia Biodermogenesi®.

«L’aggressione con acido, conosciuta anche come “vitriolage” è una forma di violenza premeditata che consiste nel gettare una sostanza corrosiva sul corpo di un’altra persona con l’intento di sfigurarla, mutilarla, torturarla o ucciderla. La gravità del danno dipende sia dalla concentrazione della sostanza corrosiva utilizzata che dal tempo in cui essa rimane a contatto con i tessuti. Il comune denominatore degli aggressori è il desiderio di colpire la faccia. Contro la povera signora Lamberti è stato usato l’acido solforico uno degli agenti più aggressivi: ha ricevuto danni gravissimi alle palpebre, labbra, naso, orecchie. La signora ha dovuto subire numerosi interventi di chirurgia plastica che non sono riuscite a restituirle completamente ne l’aspetto né la funzione», spiega il Dottor Bruno Brunetti, Specialista in Dermatologia e Malattie sessualmente trasmissibili e titolare del Centro dermatologico Brunetti di Salerno.

«La metodologia Biodermogenesi® è in grado di recuperare la funzionalità del microcircolo cutaneo, migliorando la qualità della matrice extracellulare e moltiplicando la produzione di collagene e fibre elastiche in tutte le alterazioni cutanee, in particolare sulle cicatrici. Ho trattato le cicatrici della signora Lamberti causate da acido solforico, con 12 sedute Biodermogenesi®», sottolinea la Dottoressa Anna Maria Minichino, Medico Chirurgo e Responsabile dermoestetico del Centro dermatologico Brunetti di Salerno.

«Seduta dopo seduta ho notato un livellamento delle cicatrici che reso la pelle più liscia, compatta ed uniforme; le rughe si sono attenuate ed anche il diverso colore delle cicatrici si è presentato sempre più simile a quello della pelle sana. Alla palpazione di volto e collo effettuata dopo i trattamenti i cordoni cicatriziali presenti sono notevolmente migliorati, divenendo più morbidi ed elastici permettendo alla paziente di poter finalmente inclinare e ruotare la testa senza limitazioni e dolore. L’aspetto professionale per me più gratificante nel dedicarmi alla signora Lamberti è stato quello di averle migliorato la qualità della vita, grazie ad un importante miglioramento delle sue cicatrici, sia funzionale con il recupero della sensibilità delle pelle del volto, che estetico, dando sollievo e speranza ad una paziente così emotivamente provata», continua la Dottoressa Minichino.

«Le cicatrici al volto sono un problema grave in medicina, perché creano conseguenze sulla psiche dell’individuo, alterano l’immagine del sé e diminuiscono la qualità della vita in modo significativo. Oggi abbiamo degli approcci terapeutici sicuramente efficaci, ma occorre sviluppare sempre più le terapie non invasive, in grado di agire in modo sicuro e con una documentata efficacia. Le terapie non invasive sono particolarmente importanti perché possono essere utilizzate più facilmente anche nelle fasce più svantaggiate della popolazione. Proprio per questo hanno un elevato impatto sociale», sottolinea il Professor Andrea Sbarbati, Professore Ordinario dell’Università di Verona.

Oltre alle donne vittime di violenza, il progetto è aperto anche a persone di entrambi i sessi, economicamente svantaggiate. Per tutti, le terapie saranno erogate interamente pro-bono con il medical device Bi-one® LifeTouchTherapy presso i Center of Therapeutic Excellence Biodermogenesi® (CTE) che aderiranno all’iniziativa.

Ogni anno, nei soli Paesi sviluppati vi sono mediamente 100 milioni di persone con nuove cicatrici che riguardano sia il corpo che il volto. Di queste, 55 milioni sono legate ad esiti post-chirurgici elettivi, mentre 25 milioni sono dovute ad interventi chirurgici post-traumatici, i restanti 20 sono di diversa natura. Parlando nello specifico del volto vi sono, inoltre, cicatrici derivanti da trauma, per le quali non si può quantificare il numero annuo, sebbene probabilmente sia più elevato rispetto a quelle chirurgiche.

Allo stato dell’arte non si è affermata una tecnologia che si possa definire universalmente efficace nella terapia delle cicatrici e questo ci ha portati a valutare la sinergia tra campi elettromagnetici e vuoto, anche di conseguenza ad esperienze maturate da Nicoletti e coll. della Cattedra di Chirurgia Plastica dell’Università di Pavia e da Veronese e coll. del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Verona, che hanno ottenuto significativi esiti su cicatrici di ogni genere, comprese quelle lacero-contuse, da trauma e da ustione su collo e volto.

L’esperienza Biodermogenesi® relativa a 25 pazienti gravati da cicatrici da trauma, ustione, da taglio e post-chirurgiche, ha permesso di constatare un importante miglioramento delle cicatrici trattate, sia per quanto riguarda la trama cutanea che per la discromia, ottenendo in alcuni casi anche l’abbronzatura della cicatrice. Da tale esperienza sono derivate un articolo scientifico recentemente pubblicato e il presente progetto RigeneraDerma.

Fonte: askanews.it

Importante risultato raggiunto da una Rete di ricerca Italiana

Uno studio multicentrico italiano ha permesso di individuare alcuni dei meccanismi patologici coinvolti nel malfunzionamento delle cellule nella Sindrome di Smith-Magenis (SMS), una rara e, allo stesso tempo, complessa patologia genetica che colpisce, a più livelli, lo sviluppo del bambino. La ricerca è stata condotta nell’IRCCS Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, da un team tutto italiano, coordinato dalla Dott.ssa Jessica Rosati sotto la supervisione del Prof. Angelo Luigi Vescovi, in collaborazione con il gruppo di ricerca della Prof.ssa Maria Pennuto dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare VIMM, la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e l’Istituto Neurologico Carlo Besta IRCCS, due dei maggiori centri clinici di cura per i bambini affetti dalla Sindrome di Smith-Magenis.

Il lavoro dal titolo “Retinoic acid-induced 1 gene haploinsufficiency alters lipid metabolism and causes autophagy defects in Smith-Magenis syndrome” è stato pubblicato sulla Rivista scientifica “Cell Death and Disease”. La Sindrome di Smith-Magenis (SMS) è una malattia genetica rara, causata nel 90% dei casi da una delezione nel braccio corto del cromosoma 17 (17p11.2), e nel restante 10% da mutazioni puntiformi nel gene RAI1. I bambini con questa sindrome presentano significativi deficit neuro-cognitivi, dismorfismi craniofacciali, obesità, disturbi del sonno e del comportamento. La prevalenza mondiale è di 1/15.000-25.000 in tutti i gruppi etnici, ma è molto probabile che vi sia una sottostima nelle diagnosi.La ricerca in questione costituisce una pietra miliare nello studio di questa patologia perché, sino ad oggi, questa Sindrome è stata prevalentemente studiata solo da un punto di vista clinico.Dal 1986, anno in cui venne diagnosticata per la prima volta, non sono state sviluppate terapie efficaci per la cura.

Il progetto ha avuto inizio cinque anni fa con il prelievo di cellule da un primo paziente; successivamente, grazie all’aiuto fondamentale dell’Associazione Smith Magenis Italia, che ha sensibilizzato le famiglie coinvolte rispetto all’importanza della ricerca scientifica, è stato possibile ottenere e indagare un numero consistente di linee paziente-specifiche. Queste linee cellulari, sono state essenziali per dimostrare che esistono alcuni processi deregolati all’interno della cellula, comuni a tutti i pazienti, al di là della variabilità genomica e sintomatologica di ciascuno di loro. In particolare, nelle cellule dei bambini con Sindrome di Smith-Magenis (SMS), è emerso come si accumulino i trigliceridi, sotto forma di gocce lipidiche, a causa di una deregolazione del processo di smaltimento dei rifiuti cellulari. Questo blocco del processo di smaltimento provoca una sofferenza nella cellula, con un accumulo di radicali liberi che porta alla morte cellulare.

“Una volta individuato questo meccanismo, siamo riusciti a migliorare con un farmaco il fenotipo patologico nelle cellule agendo sull’accumulo dei trigliceridi e dei radicali liberi e ottenendo un miglioramento della vitalità cellulare, questo andando proprio ad agire sul meccanismo biochimico inficiato dalla mutazione genetica”, spiega Angelo Vescovi, Direttore Scientifico dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e Coordinatore del Progetto.

I risultati di questo studio identificano per la prima volta i processi patologici che avvengono nelle cellule dei pazienti con Sindrome di Smith-Magenis (SMS) e che rappresentano bersagli terapeutici per una futura terapia sperimentale. Esperimenti sono in corso per traslare queste scoperte in una sperimentazione clinica nel più breve tempo possibile.

Fonte: askanews.it

"Sindrome del lenzuolo", sofferenza maschile ancora tabù

“Stasera non me la sento”: sembra una scusa prettamente femminile per non fare sesso, invece, può essere il segnale di un dolore fisico o psichico associato all’attività sessuale, che colpisce anche gli uomini, di cui però si parla poco perché i maschi tendono a mascherare questa sofferenza e sono restii a consultare lo specialista. Di fronte al dolore, quindi, gli uomini sono davvero il sesso debole, incapaci di dirlo e con una forza reattiva inferiore a quella delle donne. La differenza è evidente nella sfera andrologica, dove il dolore fisico si intreccia con quello psichico e viceversa. Molto spesso i due tipi di dolore sono come un circuito vizioso che si autoalimenta: il dolore fisico, come ad esempio nel dolore pelvico cronico, genera sofferenza psicologica, con ricadute che possono spingere l’uomo fino a evitare il rapporto sessuale. Così anche per il dolore psicologico come quello per la perdita della potenza sessuale che ne favorisce lo sviluppo con una riduzione dei rapporti.

A sollevare per la prima volta il velo in cui è avvolta la sofferenza maschile, sono gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA) nella terza edizione del Congresso Natura, Ambiente, Alimentazione e Uomo (NAU). Secondo gli specialisti la “sindrome del lenzuolo” colpisce 4 milioni di uomini che, in due casi su 10, rinunciano al sesso per dolore fisico e psichico. L’obiettivo degli andrologi SIA è dunque quello di proporre un cambio di paradigma nella cultura del dolore a cui troppo spesso si dà una valenza esclusivamente femminile.

“Il dolore causato da un problema andrologico può avere un impatto ingente sul benessere sessuale, individuale e di coppia – spiega Alessandro Palmieri, presidente SIA e docente di Urologia all’università Federico II di Napoli -. Sebbene sia gli uomini che le donne considerino un’appagante attività sessuale essenziale per il mantenimento della relazione, gli uomini tendono però a enfatizzare l’importanza del sesso come emblema di mascolinità e di successo. Proprio per la rilevanza attribuita all’attività sessuale – precisa Palmieri – tendono a sottacere il dolore che alla fine li porta a evitare il rapporto sessuale vero e proprio, avviando un circolo vizioso dannoso per la coppia e per l’uomo stesso”. “Negli ultimi anni la sofferenza maschile è aumentata notevolmente – dice Ciro Basile Fasolo, presidente del congresso NAU e autore del libro “Homo Patiens” dedicato al dolore nell’uomo – recenti dati epidemiologici hanno evidenziato come un maschio su tre sia affetto da patologie uro-andrologiche che possono interessare l’intero arco della vita: dall’adolescenza fino all’età avanzata. Il riconoscimento tempestivo di alcuni sintomi permette di trattare patologie quali l’ipogonadismo, la disfunzione erettile, l’eiaculazione precoce, l’infertilità, le patologie prostatiche su base infiammatoria o infettiva, che non di rado possono essere sottovalutate o addirittura misconosciute”. “Va poi tenuta in considerazione la bidirezionalità della correlazione tra dolore fisico e dolore psichico – aggiunge Palmieri – infatti il dolore corporeo come nel caso della sindrome pelvica, della prostatite cronica o del cancro alla prostata, può innescare uno stato ansioso in grado di aggravare l’impatto della patologia sulla sfera sessuale. Ma anche il dolore psichico non secondario a una patologia organica, come quello che accompagna l’infertilità maschile o le disfunzioni sessuali può avere ripercussioni di avversione sessuale fino alla rinuncia totale dei rapporti”. Le prostatiti rappresentano oggi una delle patologie più frequenti, in particolare, la prostatite cronica o sindrome del dolore pelvico cronico interessa il 10-15% della popolazione maschile e può insorgere negli uomini di qualunque età. “Ci sono diversi tipi di trattamento che consentono di gestire questa patologia – spiega Palmieri – come ad esempio le onde d’urto, ovvero onde acustiche ad alta intensità che si trasmettono attraverso la pelle nell’area interessata dove diminuiscono il dolore e accelerano la guarigione. Il problema, dunque, non è la mancanza di trattamenti, ma la reticenza degli uomini a chiedere aiuto al medico. Molto spesso la diagnosi arriva in ritardo, causando agli uomini più sofferenza, anche psicologica, che può essere invece evitata”. Un discorso simile vale anche per la disfunzione erettile, che interessa oltre 3 milioni di uomini in Italia e l’eiaculazione precoce. “A scoraggiare gli uomini è ammettere il dolore psichico causato da questi problemi – evidenzia Palmieri -. Il paziente prova imbarazzo anche a parlarne con lo stesso specialista. Si isola nella sua sofferenza e fa gran fatica a chiedere aiuto. Moltissimi pazienti sono giovani – spiega il presidente SIA – ma arrivano a consultare uno specialista solo dopo aver superato i 30 anni. E’ fondamentale una diagnosi tempestiva e precisa per aiutare il paziente nella ricerca della terapia più appropriata”.

Fonte: askanews.it

Studio all'Irccs Candiolo

La genomica da sola non basta più. La nuova frontiera della ricerca sul cancro passa per altre “scienze”, come ad esempio la proteomica, la metabolomica e la radiomica. L’obiettivo è ambizioso: individuare i tumori prima che siano visibili in una TAC o in una PET. A guidare in questo viaggio verso le nuove sfide nella lotta al cancro è Vanesa Gregorc, direttrice dell’Oncologia Medica dell’IRCSS Candiolo.

“Negli ultimi anni ci siamo resi conto che la sfida contro il cancro non si può giocare solo studiando il tumore, in qualunque forma esso appare, – spiega – ma anche analizzando le caratteristiche dei pazienti, del microambiente in cui crescono e delle cellule tumorali e il rapporto che esse instaurano con il sistema immunitario”. Si tratta di un cambio di paradigma che, man mano che la tecnologia si è evoluta, ha aperto nuove linee di ricerca, impensabili fino a quale anno fa. Oggi le linee di ricerca seguite dai 400 ricercatori dell’IRCCS Candiolo sono molte e diverse, tra le più avanguardia a livello internazionale. “Con progetto Proactive, ad esempio, abbiamo l’obiettivo di migliorare e personalizzare – riferisce Gregorc – la prevenzione terziaria dei tumori, quella che ci consente di individuare la malattia prima che si manifesti e prenda il sopravvento sul paziente. Grazie alla ricerca sul Dna tumorale circolante, delle singole cellule tumorali, più precisamente delle primissime tracce che il cancro rilascia nel nostro sangue, stiamo lavorando allo sviluppo di nuove metodiche che ci consentano di prevedere lo sviluppo di un tumore diverso tempo prima che diventi radiologicamente visibile. Vogliamo scovare la malattia quando ancora si trova in uno stato cellulare, in modo da curarla prima che diventi una massa vera e propria”. “Diagnosi precocissima, quindi, a cui si può arrivare – sottolinea l’esperta – soltanto con l’aiuto di molte scienze: la genomica, cioè lo studio del genoma del tumore; la proteomica, cioè lo studio della struttura e della funzione delle proteine; la metabolomica, ovvero lo studio delle impronte chimiche lasciate da processi cellulari; e la radiomica, cioè l’analisi matematica di immagini mediche. In questo modo i pazienti possono essere messi nelle condizioni di dare battaglia al cancro nella sua fase più vulnerabile, quando ancora non ha messo radici e sfoderato tutto il suo potenziale invasivo. Significa anche intercettare in alcune persone, come ad esempio i famigliari dei nostri pazienti, il rischio di sviluppare tumori ereditari, modificando quindi il loro destino”. Con una sorta di “palla di vetro” la stessa prevenzione primaria assume una nuova e diversa importanza. Conoscere il proprio profilo di rischio o sapere con grande anticipo che un tumore sta iniziando a gettare le basi per un futuro attacco – sottolinea Gregorc – può aiutare le persone a mettere in atto una serie di misure comportamentali che possono impedire o anche solo rallentare l’insorgenza della malattia”.

Inoltre, diagnosi precocissima significa che, anche in caso di malattia conclamata, le chance di riuscire a sconfiggerla sono più numerose. “Le armi che attualmente abbiamo a disposizione, dalla tradizionale chirurgia ai più innovativi trattamenti, tra cui l’immunoterapia e i farmaci biologici, sono più efficaci quando ancora il tumore si trova in una fase precoce di sviluppo”, evidenzia Gregorc. “Ricerca e cura, quindi, viaggiano insieme ed è proprio questa la filosofia che da sempre accompagna il lavoro che noi tutti svolgiamo al Candiolo”, conclude l’esperta.

Fonte: askanews.it

Studio misura effetti economici

In Italia, ictus e infarto hanno effetti a lungo termine sulla possibilità di proseguire la propria storia lavorativa e mantenere il proprio reddito. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Torino, Università di Amsterdam e Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl 3 di Torino hanno per la prima volta misurato questi effetti economici nel contesto italiano, riscontrando una riduzione della probabilità di lavorare del 10%, a cui si associa una corrispondente perdita reddituale. Emerge anche come le norme a difesa del lavoro possano offrire una sorta di ‘salvagente’ a chi subisce un brusco peggioramento di salute, facilitando la prosecuzione della propria storia lavorativa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Labour Economics.

Cosa accade dopo un ictus o un infarto? Il lavoratore può veder aumentare il proprio “costo fisso” di lavorare e essere indotto a uscire dal mercato del lavoro. Alcuni potrebbero desiderare di continuare a lavorare, ma riducendo le ore lavorate. Infine, ci sono persone che potrebbero desiderare di continuare a lavorare mantenendo lo stesso impegno orario. Dal punto di vista del datore di lavoro, le reazioni potrebbero puntare a riduzioni di orario, mancate progressioni retributive, o persino la dismissione del lavoratore. Lo studio analizza proprio le conseguenze economiche di due imprevedibili e fulminei shock di salute. “Purtroppo gli effetti degli shock di salute sulla vita lavorativa sono permanenti – spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia all’Università Ca’ Foscari Venezia e coautrice dello studio – nel contesto italiano è molto difficile per chi esce dal mercato del lavoro riuscire a rientrarci in un momento successivo. Inoltre, non c’è margine di aggiustamento delle ore lavorate, margine che permetterebbe di rimanere attivi ad una parte di soggetti che invece, ad orario invariato, faticano a continuare l’impiego preesistente. Perché il part-time volontario è molto poco diffuso. Né osserviamo reazioni di transizione ad altre forme di lavoro, o altri datori di lavoro”.

A livello di reddito ci sono strumenti di protezione, come la pensione di inabilità. “Non troviamo evidenza che aumenti la probabilità di smettere di lavorare e al contempo di non ricevere alcun sussidio – spiega Irene Simonetti, ricercatrice di Economia all’Università di Amsterdam e coautrice dello studio- né troviamo evidenza che gli operai (più a rischio di perdere la propria capacità reddituale) usino in maniera opportunistica strumenti di welfare, quando dotati di capacità lavorativa residua”.

“Infine – spiega Michele Belloni, professore di Economia all’Università degli Studi di Torino e coautore dello studio – i nostri risultati evidenziano come la normativa di protezione del lavoro in vigore fino al 2012 sia riuscita a favorire l’inclusione lavorativa di chi ha subito un peggioramento di salute”.

Lo studio si basa sui dati amministrativi relativi a lavoratori italiani tra il 1990 e il 2012, a cui sono agganciati dati ospedalieri che permettono di osservare le loro eventuali ospedalizzazioni non programmate e dovute a infarto o ictus. Dal 2012 sono entrate in vigore riforme normative di alleggerimento della protezione lavorativa che, secondo i ricercatori, potrebbero aver contribuito ad esacerbare disuguaglianze reddituali e di benessere nella vita dei lavoratori italiani.

Fonte: askanews.it

Coordinato dalla Sapienza e dall'IIT Neuroscience and Society

“Ho le farfalle nello stomaco” non è solo una metafora. Un nuovo studio interamente italiano pubblicato su iScience ha rilevato come la consapevolezza di avere un corpo e risiedere all’interno di esso, sia una sensazione fortemente correlata a parametri fisiologici del nostro corpo come temperatura, pressione arteriosa e acidità dello stomaco e dell’intestino. Lo studio è stato sviluppato nei laboratori del Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con il laboratorio Neuroscience and Society del centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma, CLN2S@Sapienza. La ricerca ha evidenziato che gli organi più profondi del nostro corpo, come quelli appartenenti al tratto gastro intestinale, sono gli unici in grado, attraverso segnali mandati ai nervi periferici, di captare sempre tutto ciò che ci circonda. “Il problema – afferma Salvatore Maria Aglioti, Professore alla Sapienza e Ricercatore Senior presso IIT – è che una cosa è studiare il ruolo dell’attività cardiaca o respiratoria nella consapevolezza corporea, come abbiamo fatto in precedenza, una cosa è studiare l’attività del tratto gastrointestinale. Stomaco e intestino sono organi profondi e contorti, che normalmente vengono indagati per mezzo di sonde molto invasive: chiunque abbia fatto una gastroscopia o una colonscopia lo sa per esperienza”. Per superare questo ostacolo, i ricercatori e le ricercatrici hanno esplorato il collegamento tra stomaco, intestino e percezione del proprio corpo per mezzo di una tecnologia altamente progredita e mai impiegata prima nel campo delle neuroscienze cognitive: le pillole furbe, dotate di un termometro, un manometro e un sensore di acidità miniaturizzati e ingerite come normali compresse. Attraverso questi dispositivi sono stati in grado di registrare a intervalli regolari, temperatura, pressione e acidità gastrointestinale. I dati una volta raccolti venivano trasmessi a una ricetrasmittente esterna, il tutto collegato senza fili. Per capire se veramente ci fosse una correlazione tra lo stato fisiologico dell’apparato gastrointestinale e la consapevolezza del proprio corpo, i partecipanti dovevano ingerire una di queste pillole intelligenti e mediante un visore 3D osservare un corpo virtuale. Questo avatar poteva presentarsi in due situazioni differenti: la prima in cui tale personaggio aveva un aspetto simile al paziente, si trovava nella sua stessa posizione e respirava come lui; la seconda situazione in cui il personaggio era differente dal partecipante. Alla fine di questa esperienza il paziente doveva descrivere quanto si sentiva “incorporato” al corpo virtuale appena mostrato. Tale procedura doveva essere ripetuta tre volte, a seconda della posizione della pillola furba: la prima in prossimità dello stomaco, la seconda dell’intestino tenue e l’ultima nell’intestino crasso.

Fonte: askanews.it

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